Houzz per i Pro
Architettura e design
Futuro Lessicale: ArchitettA. Questo è il Termine Giusto da Usare
Per una professionista dell'architettura il titolo è architetta, non architetto. Ecco perché
È del 2 ottobre 2020 la conferma, da parte dell’Ordine degli Architetti di Milano, che è disponibile il timbro con il titolo di architetto al femminile: architetta. La richiesta è partita dall’architetta Isabella Maruti, e dopo più di un anno dalla prima domanda e un percorso abbastanza articolato, è arrivata la conferma. Una piccola rivoluzione che segue quanto già successo in altre città di minor dimensione, come Bergamo, per esempio, dove grazie all’intervento delle RebelArchitette l’Ordine è stato più sensibile alla questione e il passo in avanti è stato fatto da tempo.
È recente, inoltre, l’arrivo del timbro al femminile anche all’Ordine di Cagliari, dopo una delibera approvata dal Consiglio dell’Ordine degli Architetti, pianificatori, pesaggisti e conservatori della Città metropolitana di Cagliari e Sud Sardegna.
Ma cosa frena la diffusione del termine architetta? È giusto, dal punto di vista lessicale? Come fare per spingerne l’uso? Con l’aiuto del professore Paolo d’Achille, parte del dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre e Accademico della Crusca, della giornalista Silvia Garambois, presidente di GiULiA - Giornaliste Unite Libere Autonome, e dell’architetta Isabella Maruti, attivista sul campo, cerchiamo di fare chiarezza.
È recente, inoltre, l’arrivo del timbro al femminile anche all’Ordine di Cagliari, dopo una delibera approvata dal Consiglio dell’Ordine degli Architetti, pianificatori, pesaggisti e conservatori della Città metropolitana di Cagliari e Sud Sardegna.
Ma cosa frena la diffusione del termine architetta? È giusto, dal punto di vista lessicale? Come fare per spingerne l’uso? Con l’aiuto del professore Paolo d’Achille, parte del dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre e Accademico della Crusca, della giornalista Silvia Garambois, presidente di GiULiA - Giornaliste Unite Libere Autonome, e dell’architetta Isabella Maruti, attivista sul campo, cerchiamo di fare chiarezza.
Le resistenze
Confermata la correttezza del termine, bisogna però fare i conti con qualche intoppo, a partire dal ‘suono’ del termine.
«In alcune occasioni – continua Paolo d’Achille – quando ho sostenuto la piena legittimità della forma, qualche donna ha protestato indicando che il termine potrebbe essere oggetto di ironia. Alcune resistenze all’uso del termine al femminile, infatti, possono essere legate al fatto che compare il vocabolo che nel parlato indica il seno femminile.
Inoltre, siamo sempre nell’ambito in cui il maschile è considerato per tradizione più prestigioso quindi ci sono scelte individuali in cui la donna stessa può preferire di mantenere il nome al maschile».
Confermata la correttezza del termine, bisogna però fare i conti con qualche intoppo, a partire dal ‘suono’ del termine.
«In alcune occasioni – continua Paolo d’Achille – quando ho sostenuto la piena legittimità della forma, qualche donna ha protestato indicando che il termine potrebbe essere oggetto di ironia. Alcune resistenze all’uso del termine al femminile, infatti, possono essere legate al fatto che compare il vocabolo che nel parlato indica il seno femminile.
Inoltre, siamo sempre nell’ambito in cui il maschile è considerato per tradizione più prestigioso quindi ci sono scelte individuali in cui la donna stessa può preferire di mantenere il nome al maschile».
Un’altra resistenza da combattere riguarda le professioniste che, soprattutto dopo tanti anni di lavoro, sono abituate a sentirsi chiamare architetto e non vedono nella correzione del termine un motore importante nella ricerca di parità. Ne parla Isabella Maruti: «La reazione sul titolo professionale al femminile incontra spesso, anche fra le donne, delle oppositrici, soprattutto quando di una certa età. Per chi è stata chiamata per 25 o 30 anni sempre con il titolo al maschile, questa presa di posizione sembra un’inezia. Non tutti colgono il fatto che fa però parte di un discorso più ampio: non sarà solo questo a fare la differenza ma sicuramente indica che ci siamo mossi in una certa direzione».
Cosa succede in pratica
Per ora, sul piano pratico, per le professioniste succede ancora così: chi chiede il timbro al proprio Ordine se lo vede recapitare al maschile; solo in alcune città – come a Milano, Napoli, Foggia, Bergamo e altre – se richiesto al femminile si può ottenere.
«Va bene l’iniziativa individuale – commenta Isabella Maruti – ma sarebbe meglio se a un certo punto e a livello nazionale il timbro arrivasse in automatico corretto, senza che fosse sempre necessario che in ogni Ordine qualcuno si debba fare promotore di questa richiesta. Dovrebbe diventare una regola praticata di default, come conseguenza della consapevolezza sulla sua correttezza».
Per ora, sul piano pratico, per le professioniste succede ancora così: chi chiede il timbro al proprio Ordine se lo vede recapitare al maschile; solo in alcune città – come a Milano, Napoli, Foggia, Bergamo e altre – se richiesto al femminile si può ottenere.
«Va bene l’iniziativa individuale – commenta Isabella Maruti – ma sarebbe meglio se a un certo punto e a livello nazionale il timbro arrivasse in automatico corretto, senza che fosse sempre necessario che in ogni Ordine qualcuno si debba fare promotore di questa richiesta. Dovrebbe diventare una regola praticata di default, come conseguenza della consapevolezza sulla sua correttezza».
Come spingere al cambiamento
Cosa si può fare, nella quotidianità, per promuovere il cambiamento? Secondo il professore Paolo d’Achille «La soluzione è semplicemente l’uso, nel senso che la prima volta che compaiono questi femminili sono ovviamente percepiti come strani, sbagliati o ridicoli, poi via via che se ne diffonde l’uso diventano normali. Faccio un esempio relativo al mondo universitario, che conosco meglio. Quando sono entrato in ruolo, qui a Roma Tre, fu eletta alla carica di rettore – per la prima volta una donna – la professoressa Biancamaria Bosco Tedeschini Lalli e per tutto il suo mandato si parlava di rettore. Negli ultimi anni le donne, che all’Università sono di più, hanno diffuso il termine rettrice. C’è qualcuna che persiste nel dire rettore, ma ormai rettrice è diventato normale nell’uso universitario, quindi si tratta semplicemente del coraggio di usare il termine corretto. Proprio questo porterà alla sua accettazione.
All’uso del termine sindaca ha dato un forte impulso l’elezione di Virginia Raggi a Roma e di Chiara Appendino a Torino, sono state al centro delle cronache e la ‘normalizzazione’ del femminile si è raggiunta con questi casi. Se ci fosse una architetta particolarmente in vista, molto probabilmente avremmo una spinta analoga».
Cosa si può fare, nella quotidianità, per promuovere il cambiamento? Secondo il professore Paolo d’Achille «La soluzione è semplicemente l’uso, nel senso che la prima volta che compaiono questi femminili sono ovviamente percepiti come strani, sbagliati o ridicoli, poi via via che se ne diffonde l’uso diventano normali. Faccio un esempio relativo al mondo universitario, che conosco meglio. Quando sono entrato in ruolo, qui a Roma Tre, fu eletta alla carica di rettore – per la prima volta una donna – la professoressa Biancamaria Bosco Tedeschini Lalli e per tutto il suo mandato si parlava di rettore. Negli ultimi anni le donne, che all’Università sono di più, hanno diffuso il termine rettrice. C’è qualcuna che persiste nel dire rettore, ma ormai rettrice è diventato normale nell’uso universitario, quindi si tratta semplicemente del coraggio di usare il termine corretto. Proprio questo porterà alla sua accettazione.
All’uso del termine sindaca ha dato un forte impulso l’elezione di Virginia Raggi a Roma e di Chiara Appendino a Torino, sono state al centro delle cronache e la ‘normalizzazione’ del femminile si è raggiunta con questi casi. Se ci fosse una architetta particolarmente in vista, molto probabilmente avremmo una spinta analoga».
Abbiamo chiesto anche a Silvia Garambois, presidente di GiULiA - Giornaliste Unite Libere Autonome, come fare per favorire il cambiamento e quali potrebbero essere i motori della piccola rivoluzione: «La scuola, la burocrazia e i media. Sono i tre pilastri della nostra lingua. Fino a che a scuola non si insegnerà a scardinare un linguaggio obsoleto, fino a che la burocrazia continuerà a pretendere che le donne compilino moduli in cui c’è scritto “nato a…”, fino a che i media cadranno in contraddizioni linguistiche, sarà un po’ più difficile. Ma molta strada si è già fatta. Ora tocca anche alle architette rivendicare sulle targhe fuori dagli studi, nei convegni e persino – da studentesse – all’Università, di essere riconosciute per quello sguardo in più che possono portare come donne».
I media e il loro contributo
I media hanno un ruolo importante nel favorire l’evoluzione della lingua, sono stati fondamentali nel ‘normalizzare’ l’uso del termine sindaca negli scorsi anni e probabilmente potrebbero avere un ruolo simile anche con il termine architetta. Come? Risponde ancora Silvia Garambois: «Rispettando la grammatica italiana. Faccio un esempio semplice: se qualcuno non aveva mai visto una sua foto, come poteva immaginare che Gae Aulenti fosse architetta e non architetto, se sui giornali non veniva definita correttamente?
I media hanno un ruolo importante nel favorire l’evoluzione della lingua, sono stati fondamentali nel ‘normalizzare’ l’uso del termine sindaca negli scorsi anni e probabilmente potrebbero avere un ruolo simile anche con il termine architetta. Come? Risponde ancora Silvia Garambois: «Rispettando la grammatica italiana. Faccio un esempio semplice: se qualcuno non aveva mai visto una sua foto, come poteva immaginare che Gae Aulenti fosse architetta e non architetto, se sui giornali non veniva definita correttamente?
Nella lingua italiana non esiste il neutro, ma esistono il maschile e il femminile. E vanno usati. È uno dei doveri del buon giornalismo, anche per aiutare la consapevolezza e la crescita democratica del Paese, come ci obbliga l’articolo21 della Costituzione, quello sulla libertà di stampa: quale crescita più indispensabile della reale parità uomo/donna?
Noi, come GiULiA giornaliste, sull’uso corretto del linguaggio facciamo numerosi corsi di formazione per le nostre colleghe e i nostri colleghi in tutta Italia, anche con il supporto di un manuale che abbiamo realizzato in collaborazione con l’Accademia della Crusca. E partecipiamo a iniziative di altre professioniste e professionisti. Ce n’è stata in particolare una l’anno passato a Massa Carrara, organizzata dal locale Ordine degli architetti, una mostra dal titolo divertente: “Architettrici, Architettesse, Architette”, sul “disordine” linguistico che abbiamo in questa epoca in cui le donne si affermano nelle professioni».
Noi, come GiULiA giornaliste, sull’uso corretto del linguaggio facciamo numerosi corsi di formazione per le nostre colleghe e i nostri colleghi in tutta Italia, anche con il supporto di un manuale che abbiamo realizzato in collaborazione con l’Accademia della Crusca. E partecipiamo a iniziative di altre professioniste e professionisti. Ce n’è stata in particolare una l’anno passato a Massa Carrara, organizzata dal locale Ordine degli architetti, una mostra dal titolo divertente: “Architettrici, Architettesse, Architette”, sul “disordine” linguistico che abbiamo in questa epoca in cui le donne si affermano nelle professioni».
Le altre lingue come fanno?
Prendere spunto da altri idiomi non è così semplice, come conferma il professor d’Achille: «L’inglese non ha problemi perché non avendo il genere non si pone la questione; ci possono essere delle professioni maschili o femminili ma è il nome in sé che lo mostra. Il tedesco regolarizza sempre, mette il suffisso e quindi anche in questo caso non c’è discussione. Per quanto riguarda le altre lingue romanze, il francese e lo spagnolo hanno un po’ lo stesso problema dell’italiano ed è una scelta ideologica».
Tu usi il termine architetta? Cosa ne pensi? Scrivici nei Commenti.
Altro
Contro gli Stereotipi: il Femminile nel Design Esiste?
4 Donne Architetto che Hanno Fatto Storia
Prendere spunto da altri idiomi non è così semplice, come conferma il professor d’Achille: «L’inglese non ha problemi perché non avendo il genere non si pone la questione; ci possono essere delle professioni maschili o femminili ma è il nome in sé che lo mostra. Il tedesco regolarizza sempre, mette il suffisso e quindi anche in questo caso non c’è discussione. Per quanto riguarda le altre lingue romanze, il francese e lo spagnolo hanno un po’ lo stesso problema dell’italiano ed è una scelta ideologica».
Tu usi il termine architetta? Cosa ne pensi? Scrivici nei Commenti.
Altro
Contro gli Stereotipi: il Femminile nel Design Esiste?
4 Donne Architetto che Hanno Fatto Storia
Sì, è giusto usare il termine architetta per indicare la professionista dell’architettura. In questo, a scanso di ogni dubbio interviene il professor Paolo d’Achille che conferma: «Dai nomi maschili come architetto si possono trarre normalmente i corrispondenti femminili in ‘a’, e ce ne sono esempi dal latino, come maestro/maestra. Quindi, dal punto di vista grammaticale è perfettamente lecito indicare con il termine architetta una donna laureata in architettura.
Non ci può essere l’imposizione però possiamo riconoscere la correttezza del termine».