Houzz per i Pro
Architettura e design
Contro gli Stereotipi: il Femminile nel Design Esiste?
La creatività vista dalla parte delle donne, fra differenze di trattamento e potenzialità future. Succede in Italia
Argomento spinoso, perché è difficile stabilire categorie in ambiti creativi, ma con alcuni punti molto chiari, purtroppo. La differenza di trattamento fra progettisti e progettiste, in Italia, è netta, come ci racconterà Francesca Perani, architetta, art director, illustratrice e ideatrice del collettivo RebelArchitette. Ma cosa significa, nel lavoro di tutti i giorni, essere una progettista? Ci sono differenze di approccio al lavoro, rispetto a un professionista maschile, o no? Cosa fare per combattere gli stereotipi? Con l’aiuto di Raffaella Mangiarotti, architetta e designer, e Alessandra Segantini, architetta e professore ordinario di progettazione architettonica e urbana presso la Hasselt University e UEL a Londra, nonché visiting professor a MIT a Boston, cerchiamo di tracciare un profilo della situazione.
Fare squadra e non cedere ai preconcetti sono i primi passi per cercare di superare le differenze.
Fare squadra e non cedere ai preconcetti sono i primi passi per cercare di superare le differenze.
La piattaforma RebelArchitette
Io mi sono accorta che la mancanza di modelli di ruolo al femminile, sia in Università, nei corsi di progettazione, sia sui libri di testo che sulle riviste specializzate ha influito profondamente sulla mia formazione: non ho mai potuto identificarmi con una figura di eccellenza femminile. Il fatto inoltre di non essermi mai definita architetta ma architetto ha implicitamente ribadito la mia inadeguatezza ad un mondo che identificava solo protagonisti al maschile plurale o singolare».
La mancanza di riferimenti femminili è sentita anche da Raffaella Mangiarotti, architetta che, dopo aver ottenuto anche il dottorato in design al Politecnico di Milano ha collaborato con Marco Zanuso e Francesco Traducco.
Io mi sono accorta che la mancanza di modelli di ruolo al femminile, sia in Università, nei corsi di progettazione, sia sui libri di testo che sulle riviste specializzate ha influito profondamente sulla mia formazione: non ho mai potuto identificarmi con una figura di eccellenza femminile. Il fatto inoltre di non essermi mai definita architetta ma architetto ha implicitamente ribadito la mia inadeguatezza ad un mondo che identificava solo protagonisti al maschile plurale o singolare».
La mancanza di riferimenti femminili è sentita anche da Raffaella Mangiarotti, architetta che, dopo aver ottenuto anche il dottorato in design al Politecnico di Milano ha collaborato con Marco Zanuso e Francesco Traducco.
Raffaella Mangiarotti, architetta
«Se ripercorriamo la storia, anche in uno scuola come il Bauhaus, sogno della modernità e del progressismo, le donne erano escluse da campi considerati esclusivamente maschili, come il laboratorio dei metalli, e potevano accedere solo ai laboratori tessili e ceramici, indipendentemente dalle loro preferenze e dal talento.
Marianne Brandt, l’unica donna a lavorare nel laboratorio dei metalli, ricorda nei suoi scritti il poco entusiasmo e le difficoltà nell’essere accettata dai colleghi maschi. Questo pensiero permane ancora oggi.
Occupandomi di ambiti tecnici, come quello del disegno degli elettrodomestici, ho sempre riscontrato questo preconcetto, un po’ superficiale. Se sei un uomo non mettono in dubbio le tue capacità tecniche anche se sei un somaro, ma se sei una donna per avere un minimo di credibilità tecnica, devi fare le piroette.
In generale la figura della donna è stata sempre una presenza invisibile, sommersa, rispetto a quella dell’uomo.
Tanto è vero che è solo negli ultimi anni che abbiamo rivalutato e celebrato finalmente alcune figure straordinarie, come Eileen Gray e Charlotte Perriand con grandi mostre internazionali. Fino a poco tempo fa il nome dii Charlotte Perriand era noto ai più solo per aver disegnato con le Corbusier».
«Se ripercorriamo la storia, anche in uno scuola come il Bauhaus, sogno della modernità e del progressismo, le donne erano escluse da campi considerati esclusivamente maschili, come il laboratorio dei metalli, e potevano accedere solo ai laboratori tessili e ceramici, indipendentemente dalle loro preferenze e dal talento.
Marianne Brandt, l’unica donna a lavorare nel laboratorio dei metalli, ricorda nei suoi scritti il poco entusiasmo e le difficoltà nell’essere accettata dai colleghi maschi. Questo pensiero permane ancora oggi.
Occupandomi di ambiti tecnici, come quello del disegno degli elettrodomestici, ho sempre riscontrato questo preconcetto, un po’ superficiale. Se sei un uomo non mettono in dubbio le tue capacità tecniche anche se sei un somaro, ma se sei una donna per avere un minimo di credibilità tecnica, devi fare le piroette.
In generale la figura della donna è stata sempre una presenza invisibile, sommersa, rispetto a quella dell’uomo.
Tanto è vero che è solo negli ultimi anni che abbiamo rivalutato e celebrato finalmente alcune figure straordinarie, come Eileen Gray e Charlotte Perriand con grandi mostre internazionali. Fino a poco tempo fa il nome dii Charlotte Perriand era noto ai più solo per aver disegnato con le Corbusier».
Monforte, screen acustico articolato, tavolo Sempione e sedie Magenta, di Raffaella Mangiarotti per IOC
Esistono differenze fra la progettazione al maschile e quella al femminile?
A monte, meglio non dare per scontato che ci siano differenze strutturali, farlo porterebbe direttamente a rafforzare gli stereotipi. Interviene in questa direzione Francesca Perani «Si può definire una differenza tra artiste e artisti? Non credo davvero. Crediamo invece che l’architettura sia un’attività creativa volta alla risoluzione di problemi, di spazio ma non solo. Difficile non cadere in banali stereotipi se si volessero definire due approcci progettuali gender oriented.
In questo momento storico in cui la fragilità del mondo è profondamente esposta, sia in termini sociali che in termini ambientali, è vero però che le professioniste stanno dedicandosi moltissimo a questi temi, da anni».
Esistono differenze fra la progettazione al maschile e quella al femminile?
A monte, meglio non dare per scontato che ci siano differenze strutturali, farlo porterebbe direttamente a rafforzare gli stereotipi. Interviene in questa direzione Francesca Perani «Si può definire una differenza tra artiste e artisti? Non credo davvero. Crediamo invece che l’architettura sia un’attività creativa volta alla risoluzione di problemi, di spazio ma non solo. Difficile non cadere in banali stereotipi se si volessero definire due approcci progettuali gender oriented.
In questo momento storico in cui la fragilità del mondo è profondamente esposta, sia in termini sociali che in termini ambientali, è vero però che le professioniste stanno dedicandosi moltissimo a questi temi, da anni».
Winds, brevetto di asciugacapelli di Raffaella Mangiarotti con Matteo Bazzicalupo, foto di Arturo Delle Donne
Si allontana dal concetto di gender anche Raffaella Mangiarotti: «Mi pare sia più interessante parlare di femminilità e mascolinità piuttosto che di gender. Penso che la femminilità si esprima molto nel concetto di cura, la cura che tutto funzioni bene e nel rispetto delle parti e degli altri. Femminilità si esprime in una capacità di capire la relazione tra più cose contemporaneamente e farle stare bene insieme. Per questo le donne sarebbero molto portate come direttrici creative oltreché come designer. La mascolinità la vedo di più nella espressione della performance e nell’esplicitazione del potere.
Quando ho approcciato il mondo degli prodotti industriali mi sono scontrata la logica dominante della performance. Lavo più bianco, aspiro più potente. L’attenzione era sulla potenza. A me la potenza non è mai interessata quanto la cura. Non mi interessa solo il risultato ma anche il processo. Se per lavare una camicia velocemente e più bianca possibile, la lancio contro un cestello in acciaio e alla fine di 20 lavaggi l’ho distrutta, o se per asciugare in fretta i capelli uso un phon a 2200 watt e li rovino significa che c’è qualcosa da ripensare in toto. Ciò che importa è che il prodotto svolga una funzione prendendosi cura di cui che fa».
Si allontana dal concetto di gender anche Raffaella Mangiarotti: «Mi pare sia più interessante parlare di femminilità e mascolinità piuttosto che di gender. Penso che la femminilità si esprima molto nel concetto di cura, la cura che tutto funzioni bene e nel rispetto delle parti e degli altri. Femminilità si esprime in una capacità di capire la relazione tra più cose contemporaneamente e farle stare bene insieme. Per questo le donne sarebbero molto portate come direttrici creative oltreché come designer. La mascolinità la vedo di più nella espressione della performance e nell’esplicitazione del potere.
Quando ho approcciato il mondo degli prodotti industriali mi sono scontrata la logica dominante della performance. Lavo più bianco, aspiro più potente. L’attenzione era sulla potenza. A me la potenza non è mai interessata quanto la cura. Non mi interessa solo il risultato ma anche il processo. Se per lavare una camicia velocemente e più bianca possibile, la lancio contro un cestello in acciaio e alla fine di 20 lavaggi l’ho distrutta, o se per asciugare in fretta i capelli uso un phon a 2200 watt e li rovino significa che c’è qualcosa da ripensare in toto. Ciò che importa è che il prodotto svolga una funzione prendendosi cura di cui che fa».
Alessandra Segantini, architetta, dirige, con Carlo Cappai, C+S Architects, uno studio multidisciplinare che ha ottenuto numerosi premi internazionali
Il contributo di Alessandra Segantini nasce dall’esperienza non solo legata alla progettazione, ma anche al cantiere, un ambiente prettamente maschile dove farsi riconoscere e ascoltare è difficile, per un complesso intreccio di motivi. «Il mondo della progettazione e quello del cantiere sono prettamente maschili. Mi trovo spesso ad essere l’unica donna seduta al tavolo delle decisioni. Direi, comunque, che la mia è stata spesso una posizione privilegiata avendo io un socio, Carlo Cappai, che è anche il mio compagno di vita. Ma direi che ho ascritto sempre il trattamento differente nei miei confronti rispetto a quello verso Carlo a una mia possibile impreparazione che mi ha poi spinto a studiare, lavorare e cercare di approfondire ogni questione. Ho cercato di trasformare questa differenza di trattamento in un’opportunità di crescita per me stessa.
Per quanto riguarda l’espressione del femminile nel progetto, credo che il design e la progettazione siano la traduzione in forme fisiche della cultura di un’epoca, delle ricerche e degli obiettivi personali, della propria visione ‘politica’ del mondo. È chiaro che l’essere uomo o donna possa influire in tutto ciò ma allo stesso modo di molti altri fattori. È poi la sensibilità di ognuno di noi che traduce in forma quella cultura, le nostre esperienze, suggestioni».
Il contributo di Alessandra Segantini nasce dall’esperienza non solo legata alla progettazione, ma anche al cantiere, un ambiente prettamente maschile dove farsi riconoscere e ascoltare è difficile, per un complesso intreccio di motivi. «Il mondo della progettazione e quello del cantiere sono prettamente maschili. Mi trovo spesso ad essere l’unica donna seduta al tavolo delle decisioni. Direi, comunque, che la mia è stata spesso una posizione privilegiata avendo io un socio, Carlo Cappai, che è anche il mio compagno di vita. Ma direi che ho ascritto sempre il trattamento differente nei miei confronti rispetto a quello verso Carlo a una mia possibile impreparazione che mi ha poi spinto a studiare, lavorare e cercare di approfondire ogni questione. Ho cercato di trasformare questa differenza di trattamento in un’opportunità di crescita per me stessa.
Per quanto riguarda l’espressione del femminile nel progetto, credo che il design e la progettazione siano la traduzione in forme fisiche della cultura di un’epoca, delle ricerche e degli obiettivi personali, della propria visione ‘politica’ del mondo. È chiaro che l’essere uomo o donna possa influire in tutto ciò ma allo stesso modo di molti altri fattori. È poi la sensibilità di ognuno di noi che traduce in forma quella cultura, le nostre esperienze, suggestioni».
Aequilibrium, installazione alle Corderie dell’Arsenale fimata da C+S Architects in occasione della 16° Biennale di Architettura di Venezia
Collaborazione, nuove tecnologie e ricerca di equilibrio
Per favorire il cambiamento e colmare, anche attraverso le piccole azioni quotidiane, il gap, sono sopratutto tre – secondo le progettiste interpellate – le azioni virtuose da mettere in atto: maggiore collaborazione fra professioniste, sfruttamento delle tecnologie per semplificare i processi e lotta contro gli stereotipi.
Collaborazione, nuove tecnologie e ricerca di equilibrio
Per favorire il cambiamento e colmare, anche attraverso le piccole azioni quotidiane, il gap, sono sopratutto tre – secondo le progettiste interpellate – le azioni virtuose da mettere in atto: maggiore collaborazione fra professioniste, sfruttamento delle tecnologie per semplificare i processi e lotta contro gli stereotipi.
Comincia Francesca Perani: «Il cambiamento è molto semplice, bisogna riuscire a sganciarsi dalle feroci dinamiche competitive e abbracciare un’altra modalità, quella collaborativa. Sostenere altre professioniste, certamente quelle giovani ma non solo, chiedere aiuto a colleghe più esperte, abbracciare il mentoring può favorire una situazione oggi ancora profondamente sbilanciata a favore degli uomini. Non dobbiamo soltanto occupare spazi di visibilità che ci vengono offerti ma in realtà condividerlo aprendo possibilità anche ad altre colleghe. Noi stesse, come team, anziché concentrarci esclusivamente sui nostri percorsi personali, abbiamo deciso di dedicare parte della nostra attività alla visibilità di altre progettiste attraverso una formula open source».
Schizzo di progetto per l’installazione Aequilibrium
Si concentra sulle potenzialità offerte dalla tecnologia Alessandra Segantini: «Lavorando in ambiti prettamente maschili noi donne abbiamo spesso rincorso modelli maschili, facendo sempre riunioni di persona, correndo di qua e di là, svolgendo un compito alla volta.
Oggi la tecnologia ci permette di lavorare in modalità smart. Da circa tre anni, abbiamo attivato uno studio virtuale dove tutti sono sempre connessi al server centrale. La tecnologia ridefinisce modalità di lavoro, basate sulla fiducia, trasparenti, semplici, possiamo avere tutto a disposizione e quindi avere più tempo per crescere ed arricchirci o magari solo per riposarci e pensare. E tutto ciò fa parte di un modo un po’ più femminile di organizzare il lavoro. Le donne sono brave ad organizzare i processi in modo efficiente e in multitasking: gestiscono la loro vita, riuscendo ad essere presenti nel lavoro, con i figli, la casa, i genitori anziani, magari come capita a me anche insegnando all’università. Da questo punto di vista ritengo che lo smart working abbia le potenzialità di trasformare una forma mentis e permetta anche agli uomini di riorganizzare il proprio lavoro risparmiando tempo e riequilibrandolo con la dimensione personale».
Si concentra sulle potenzialità offerte dalla tecnologia Alessandra Segantini: «Lavorando in ambiti prettamente maschili noi donne abbiamo spesso rincorso modelli maschili, facendo sempre riunioni di persona, correndo di qua e di là, svolgendo un compito alla volta.
Oggi la tecnologia ci permette di lavorare in modalità smart. Da circa tre anni, abbiamo attivato uno studio virtuale dove tutti sono sempre connessi al server centrale. La tecnologia ridefinisce modalità di lavoro, basate sulla fiducia, trasparenti, semplici, possiamo avere tutto a disposizione e quindi avere più tempo per crescere ed arricchirci o magari solo per riposarci e pensare. E tutto ciò fa parte di un modo un po’ più femminile di organizzare il lavoro. Le donne sono brave ad organizzare i processi in modo efficiente e in multitasking: gestiscono la loro vita, riuscendo ad essere presenti nel lavoro, con i figli, la casa, i genitori anziani, magari come capita a me anche insegnando all’università. Da questo punto di vista ritengo che lo smart working abbia le potenzialità di trasformare una forma mentis e permetta anche agli uomini di riorganizzare il proprio lavoro risparmiando tempo e riequilibrandolo con la dimensione personale».
Ghisolfa, poltrona acustica di Raffaella Mangiarotti per IOC
La terza idea per combattere gli stereotipi spinge più sui gesti quotidiani, potenzialmente capaci, a piccoli passi, di raggiungere traguardi importanti. Ne parla Raffaella Mangiarotti «Per partecipare al cambiamento dovremmo cercare di non attuare noi stesse differenze di genere nell’ambiente di lavoro, rivolgendoci agli uomini quando abbiamo bisogno di capire come funziona la stampante o rivolgendoci alle donne quando dobbiamo scegliere i colori, per esempio. Direi di non cadere appunto del gender gap, di non cedere ai preconcetti. Siamo persone e ciascuno di noi ha diversi contenuti di femminilità e mascolinità, indipendentemente dal gender. Quindi a mio parere ogni preconcetto è inutile e dannoso, perché porta a vedere ciò che avevi già visto nella migliore delle ipotesi.
Direi di lasciarsi un po’ sorprendere, di rischiare un po’ di più, di provare delle strade nuove. Se poi siano femminili o maschili non è importante.
Dobbiamo stare attente soprattutto quando educhiamo i figli in casa. Non fare differenze. Educare ragazze e ragazzi a fare le stesse cose, senza creare in loro preconcetti poi difficili da eliminare, se lui vuole fare danza classica e lei smontare le moto va molto bene così, stiamo ascoltando le emozioni autentiche e sviluppando le loro vere identità. Senza falsità, non ne abbiamo bisogno».
La terza idea per combattere gli stereotipi spinge più sui gesti quotidiani, potenzialmente capaci, a piccoli passi, di raggiungere traguardi importanti. Ne parla Raffaella Mangiarotti «Per partecipare al cambiamento dovremmo cercare di non attuare noi stesse differenze di genere nell’ambiente di lavoro, rivolgendoci agli uomini quando abbiamo bisogno di capire come funziona la stampante o rivolgendoci alle donne quando dobbiamo scegliere i colori, per esempio. Direi di non cadere appunto del gender gap, di non cedere ai preconcetti. Siamo persone e ciascuno di noi ha diversi contenuti di femminilità e mascolinità, indipendentemente dal gender. Quindi a mio parere ogni preconcetto è inutile e dannoso, perché porta a vedere ciò che avevi già visto nella migliore delle ipotesi.
Direi di lasciarsi un po’ sorprendere, di rischiare un po’ di più, di provare delle strade nuove. Se poi siano femminili o maschili non è importante.
Dobbiamo stare attente soprattutto quando educhiamo i figli in casa. Non fare differenze. Educare ragazze e ragazzi a fare le stesse cose, senza creare in loro preconcetti poi difficili da eliminare, se lui vuole fare danza classica e lei smontare le moto va molto bene così, stiamo ascoltando le emozioni autentiche e sviluppando le loro vere identità. Senza falsità, non ne abbiamo bisogno».
Le iniziative da seguire
Oltre al moltiplicarsi di mostre dedicate alle progettiste in ambito internazionale, come quelle organizzate da RIBA, Royal Institute of British Architects, o a iniziative come il caso di Denise Scott Brown per il Pritzker Prize, anche a livello nazionale ci sono molte associazioni che si occupano di dare visibilità e spingere per il riconoscimento dei diritti delle progettiste. Oltre alla piattaforma RebelArchitette che raccoglie 555 professioniste, ci sono, fra le altre, le associazioni Ada - Associazione Donne Architetto; Aidia Women in Lighting Italy; Ladies, Wine&Design.
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Lo stato di fatto, sul campo.
Francesca Perani descrive chiaramente, presentando statistiche, la situazione: «I dati riportati in Italia sono molto chiari nel delineare un panorama a svantaggio delle architette. Parliamo di un diseguale trattamento economico tra uomini e donne (secondo i dati Inarcassa, le donne guadagnano in media il 37% in meno dei loro colleghi) e di una difficilissima conciliazione dei tempi famiglia/lavoro (le donne dedicano quattro ore al giorno per le cure parentali mentre gli uomini solo una). Questo impedisce alle professioniste di poter dedicare tempo ed investimenti adeguati alla promozione del proprio lavoro, attività fondamentale in un sistema così affollato e quindi competitivo come il nostro.
L’accesso al lavoro può ritenersi equo solo nel momento in cui anche queste due dinamiche saranno risolte. Non è un caso, infatti, che il 49% delle eccellenze in architettura evidenziate dal primo libro prodotto dal nostro collettivo Architette=WomenArchitects Here we are! abbiano costituito il proprio studio affiancandosi ad un uomo, nella maggioranza dei casi anche partner nella vita.