Come la Vita di Sarah e sua Figlia sono Cambiate in una Capanna
Vivere in un ambiente isolato ha inaspettatamente aiutato una scrittrice a scoprire un’esperienza unica di maternità
Sarah Menkedick
12 ottobre 2017
Fotografie di Jorge Santiago
Sarah Menkedick, ritratta in questa foto, è una scrittrice, nonché insegnante e fondatrice di Vela, una rivista online di saggistica scritta da autrici donne. Il suo ultimo libro, Homing Instincts: Early Motherhood on a Midwestern Farm (Pantheon Books), è il diario del suo trasferimento in una capanna dell’Ottocento e del suo diventare madre.
Se mi aveste chiesto quando avevo 15 o 20 o anche 25 o 29 anni dove sarei andata a vivere a 30, l’ultimo posto al mondo che avrei detto sarebbe stata una casetta di legno costruita nel 1828 nella fattoria dei miei in Ohio. Quindi è ovvio che, a 30 anni, quello sia stato esattamente il posto dove mi sono ritrovata a vivere.
Avevo appena finito un master in belle arti alla University of Pittsburgh, e con mio marito, Jorge Santiago, mi trovavo in una specie di limbo. Una sera a cena, nella casa che i miei genitori hanno progettato e costruito nella Contea di Noble, in Ohio, mio padre – forse sentendo che stavamo per tornare a vivere in Messico, dove vivevamo prima che io cominciassi a studiare per il master – ci ha offerto la capanna, affinché potessimo andarci ad abitare. La proposta era del tutto inaspettata, e stranamente allettante.
La capanna stava a 150 metri dalla casa dei miei, in una tenuta di 16 ettari di bosco e pascoli. Proprio a fianco della porta di ingresso, una targa ricordava che la costruzione faceva parte del National Register of Historic Places [il registro nazionale statunitense dei luoghi che costituiscono un patrimonio storico e culturale, NdT].
Sarah Menkedick, ritratta in questa foto, è una scrittrice, nonché insegnante e fondatrice di Vela, una rivista online di saggistica scritta da autrici donne. Il suo ultimo libro, Homing Instincts: Early Motherhood on a Midwestern Farm (Pantheon Books), è il diario del suo trasferimento in una capanna dell’Ottocento e del suo diventare madre.
Se mi aveste chiesto quando avevo 15 o 20 o anche 25 o 29 anni dove sarei andata a vivere a 30, l’ultimo posto al mondo che avrei detto sarebbe stata una casetta di legno costruita nel 1828 nella fattoria dei miei in Ohio. Quindi è ovvio che, a 30 anni, quello sia stato esattamente il posto dove mi sono ritrovata a vivere.
Avevo appena finito un master in belle arti alla University of Pittsburgh, e con mio marito, Jorge Santiago, mi trovavo in una specie di limbo. Una sera a cena, nella casa che i miei genitori hanno progettato e costruito nella Contea di Noble, in Ohio, mio padre – forse sentendo che stavamo per tornare a vivere in Messico, dove vivevamo prima che io cominciassi a studiare per il master – ci ha offerto la capanna, affinché potessimo andarci ad abitare. La proposta era del tutto inaspettata, e stranamente allettante.
La capanna stava a 150 metri dalla casa dei miei, in una tenuta di 16 ettari di bosco e pascoli. Proprio a fianco della porta di ingresso, una targa ricordava che la costruzione faceva parte del National Register of Historic Places [il registro nazionale statunitense dei luoghi che costituiscono un patrimonio storico e culturale, NdT].
All’interno si trovavano uno scuro, piccolo soggiorno, organizzato intorno a una stufa a legna, e una cucina ancora più piccola. Il piano superiore consisteva di una camera con due vecchi letti, una frazione di stanza larga giusto abbastanza per accogliere una scrivania, e un bagno con una vasca dai piedi a zampa di leone. Il negozio di alimentari più vicino era a trenta minuti. Non c’era una caffetteria se non a un centinaio di chilometri.
Io e Jorge abbiamo detto sì. Mi sono immaginata questa esperienza come un incredibile periodo di formazione alla scrittura in un’area rurale nel sud-est dell’Ohio, dove la sera avrei fatto tardi sotto al portico davanti a casa, bevendo birra e leggendo classici della letteratura. Appena un mese dopo che ci eravamo trasferiti, ho scoperto di essere incinta. Per me, l’esperienza della gravidanza ha rappresentato l’occasione di un improvviso, travolgente isolamento.
Io e Jorge abbiamo detto sì. Mi sono immaginata questa esperienza come un incredibile periodo di formazione alla scrittura in un’area rurale nel sud-est dell’Ohio, dove la sera avrei fatto tardi sotto al portico davanti a casa, bevendo birra e leggendo classici della letteratura. Appena un mese dopo che ci eravamo trasferiti, ho scoperto di essere incinta. Per me, l’esperienza della gravidanza ha rappresentato l’occasione di un improvviso, travolgente isolamento.
Per la prima volta in vita mia, ero tenuta a rispondere totalmente al mio corpo, a un’esperienza che andava svolgendosi dentro di me, ma, allo stesso tempo, assolutamente a prescindere da me. Per la prima volta, ero veramente limitata in quello che potevo fare, mangiare, esperire, e per la prima volta il centro della mia attenzione era intensamente, in modo quasi soffocante, interiore. Scoprire questo nel contesto di uno spazio largo appena 3 metri quadrati per 3, scuro e ammuffito e costruito con robuste travi nude, rendeva il tutto molto più intenso.
All’inizio per me è stato difficile. Desideravo essere là fuori nel mondo, in spazi aperti. In autunno ho girato i 16 ettari della fattoria con i miei cani, muovendomi lentamente tra le colline e il torrente. Ma a mano a mano che la gravidanza avanzava, ho cominciato ad accettare questa concentrazione interiore, questo nuovo e strano assestamento. Passavo i pomeriggi e le sere a leggere e a scrivere davanti alla stufa a legna: una calda pancia rossa che nutrivamo ciocco dopo ciocco. Passavo ore nella vecchia vasca in bagno. Ho fatto mia questa sensazione di contenimento, nella capanna, nel mio corpo, nella mia pancia.
All’inizio per me è stato difficile. Desideravo essere là fuori nel mondo, in spazi aperti. In autunno ho girato i 16 ettari della fattoria con i miei cani, muovendomi lentamente tra le colline e il torrente. Ma a mano a mano che la gravidanza avanzava, ho cominciato ad accettare questa concentrazione interiore, questo nuovo e strano assestamento. Passavo i pomeriggi e le sere a leggere e a scrivere davanti alla stufa a legna: una calda pancia rossa che nutrivamo ciocco dopo ciocco. Passavo ore nella vecchia vasca in bagno. Ho fatto mia questa sensazione di contenimento, nella capanna, nel mio corpo, nella mia pancia.
In un certo senso, la capanna conteneva me proprio come io contenevo la mia bambina. Costruita per la dura vita dei pionieri, si reggeva forte e resisteva al mutare delle stagioni. Aveva così poca luce che al piano di sopra potevo dormire per 14, 16 ore di seguito, risvegliandomi un po’ confusa come se arrivassi da un altro pianeta. Ha creato in me un forte senso di contrasto tra interiorità – la casa, l’incubatore per la mia vita familiare – ed esteriorità, ovvero lo stato brado, un terreno da girovagare ed esplorare. Mi ha insegnato come entrare nella mia maternità con calma e concentrarmi.
Tuttavia non sarei mai riuscita a finire quell’anno in capanna se non avessi avuto la possibilità di lottare nei miei stivali ammuffiti e aprire la porta su una terra che arriva fin giù a una vallata e risale su basse colline, solcata dall’acqua e fittamente coperta di foglie.
Tuttavia non sarei mai riuscita a finire quell’anno in capanna se non avessi avuto la possibilità di lottare nei miei stivali ammuffiti e aprire la porta su una terra che arriva fin giù a una vallata e risale su basse colline, solcata dall’acqua e fittamente coperta di foglie.
Il contrasto tra la capanna e il suo porticato è forte. Facendo un semplice passo fuori si rimane colpiti dalla vista dei pascoli e del bosco, i cavalli che brucano l’erba su un declivio distante, la luna che sorge sulla vallata.
Potevo fare un passo fuori dal porticato e camminare per chilometri, guardando le foglie dei faggi diventare dorate con l’inverno, e i Trillium sbocciare sul torrente e affollare la casa abbandonata di un verde inaspettato.
E poi tornavo indietro, vedendo spuntare la capanna proprio come mi immaginavo succedesse ai primi coloni, dall’alto del bosco, una sottile cordicella di fumo che si svolgeva dal camino, tenace e bellissima nella sua semplicità. Aprivo la porta ed ero investita dal profumo del legno, di un muschio vecchio di secoli. Sistemavo il mio corpo dolorante e la mia pancia sempre più grande su una vecchia e comoda poltrona davanti al fuoco.
E poi tornavo indietro, vedendo spuntare la capanna proprio come mi immaginavo succedesse ai primi coloni, dall’alto del bosco, una sottile cordicella di fumo che si svolgeva dal camino, tenace e bellissima nella sua semplicità. Aprivo la porta ed ero investita dal profumo del legno, di un muschio vecchio di secoli. Sistemavo il mio corpo dolorante e la mia pancia sempre più grande su una vecchia e comoda poltrona davanti al fuoco.
La capanna ha rafforzato quel periodo liminale che è la gravidanza, e dopo, quando è nata la mia bambina, ha rinforzato la surreale, straordinaria e noiosa esperienza della cura di un neonato. Tutte le madri sono in una situazione di rimozione, fisica o psichica, durante questo periodo, e la capanna ha mostrato questa cosa in tutta la sua evidenza. Vivevo nel mio universo fatto di latte, pannolini, alta erba, legno e sonnellini nel buio silenzioso.
La capanna mi ha permesso di fondermi col mondo e vivere lontano dal mondo. Ho messo il piede fuori e ho camminato nel bosco con la mia bambina attaccata al petto, ascoltando il suo mormorare, e sono stata seduta dentro alle tre di notte, a mezzogiorno e alle sei di sera nella perpetua luce soffusa e ho allattato, e tutto si confondeva e sembrava completamente staccato da qualsiasi forma di vita avessi vissuto in precedenza. È stata la più inebriante, distintiva, bella, unica esperienza della mia vita.
E poi gradualmente, quando la neonata è diventata una bambina e le carriere mia e di mio marito sono ripartite, la capanna è diventata troppo piccola e troppo isolata. Ce ne siamo andati. Abbiamo impacchettato i giocattoli in plastica inadatti a quel luogo e abbiamo tirato giù i nostri libri dalle mensole, ma, oltre a questo, non avevamo granché.
Abbiamo cominciato una vita più comune in una casa di città, ormai impegnati su nuove cose, ma ogni volta che torniamo alla capanna, io provo ancora quella sensazione particolare di essere contemporaneamente nel mondo e rimossa dal mondo.
Abbiamo cominciato una vita più comune in una casa di città, ormai impegnati su nuove cose, ma ogni volta che torniamo alla capanna, io provo ancora quella sensazione particolare di essere contemporaneamente nel mondo e rimossa dal mondo.
Cammino con mia figlia nel bosco. Le preoccupazioni di ogni giorno che sembrano così importanti svaniscono. Una volta, appena mia figlia aveva compiuto due anni, siamo entrati nella capanna in un giorno di sole. Lei si è fermata sulla soglia e ha fatto un grande respiro, teatrale, come fanno i bambini della sua età. «Ha un odore», ha detto. Io sono scoppiata a ridere. Come te, volevo dirle, come noi, come il tempo in cui questo luogo ci ha contenuto e ci ha cambiato.
Raccontaci: lasceresti tutto per abitare in una capanna? Hai mai trascorso un periodo meditativo lontano dalla città? Come hai vissuto la tua casa durante la gravidanza? Parliamone nei Commenti!
My Houzz: Il Coraggio di Lasciare la Città per la Campagna
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Bellissima esperienza, poi alla fine è tornata nella normalità.....
Abitiamo nella casa costruita dai miei bisnonni, dove è nata la mia nonna materna e le sue sorelle. La nostra casa durante la gravidanza era una certezza. Una delle poche certezze di quel periodo così.. Ingombrante. La nostra casa è il luogo dove è nato nostro figlio. Abbiamo scelto il parto in casa e questo ha aggiunto ulteriore valore affettivo alle mura.